Armando Curcio Editore

Liberata con la scrittura, nella scrittura

cover def le ali della notte

cover def le ali della notteLibri come questo, Le ali della notte, Curcio Editore, di Sonia Giovannetti, fanno bene. Fanno bene allo spirito, scavano, vanno in profondità, come la poesia: “poeta minatore” secondo la formula che era di Giorgio Caproni. Conoscevo Sonia soprattutto come poeta – preferisco usare questo termine all’altro di poetessa che suona male, stride, è un termine unisex “poeta” e va bene sia al maschile sia al femminile e non a caso molte delle storie descritte, così leggere, eteree, evanescenti, sono scritte al maschile -; dicevo di conoscere Sonia soprattutto come poeta, attenta “operaia di parole”, elemento questo che anche in prosa non ha perduto. Perché la poesia ha quell’imprevisto, è, come afferma Pierluigi Cappello, “il luogo dell’inatteso, del lapsus, dello sguardo che concepisce il mondo con la coda dell’occhio”. E a ben guardare questi brevi componimenti hanno sempre questo straordinario colpo inatteso, questa forma che sconcerta e avvince.

Una cornice li unisce, il racconto si snoda in una settimana, giorno dopo giorno, brevi episodi dal lunedì alla domenica – ma la domenica è giorno di riposo e di poesia, per cui i racconti si fermano al sabato – la poesia apre e chiude il percorso, non poteva essere diversamente per Sonia. Sono questi i protagonisti – i contenuti sono solo strumenti – il libro e la poesia, in altre parole “la scrittura”. Le ali della notte trovano la loro giustificazione in un vitale amore che dia senso all’esistenza, ragion d’essere e vita, libertà, valore, amore, speranza, tutto. “Liberata con la scrittura, nella scrittura”: in questa formula la sua ragione di scrivere, la parola come ricerca di libertà. “…E ogni volta che prendo una penna in mano nasco di nuovo, con le parole che escono da me”, come se le parole fossero altro, vive e piccole monadi che si lasciano conquistare, come se la parola e la poesia fossero un incontro non ricercato, quasi casuale, così dice Neruda. Allora l’amico, il vero amico, quello che non tradisce mai è là, in perenne attesa, lungamente cercato: “Tutto avrà senso quando inizierò a leggerti, mio caro libro”. Non è questo solo un semplice inizio, è un attestato di poetica, un programma che vede l’artista, qualsiasi artista, impegnato a seguire, un atto di fede. Parola come ricerca e parola come forma espressiva, e già nel suo incipit ne descrive la forma per ritrovarsi “migliore e piena di leggerezza. Leggerezza, dico”.

La leggerezza fu la prima delle Lezioni americane di Italo Calvino, Paolo Lagazzi raccoglie alcuni suoi saggi sotto il titolo Forme della leggerezza, indicando in questo una particolare forma di scrittura, e forse può essere casuale l’immagine in copertina di questa farfalla blu, un blu forte, forse anche pesante, ma così pesante che richiama il sonno, l’inconscio, e di cui la farfalla diventa il simbolo del volo, della metamorfosi e della leggerezza. Sono le piccole cose che danno senso, metafore che si riempiono di ben altri significati, espressioni di leggerezza che tendono a spostare i macigni della realtà, viaggio come metamorfosi, come un solcare i mari della vita e della conoscenza, come porto sepolto da cui ripartire. Qui sta forse il senso della poesia, in questa farfalla, colorata, non simbolo dantesco, ma luce che dà forma e spazio e ragione di vita, come la farfalla che il mercante Stein trova nei suoi viaggi e nella cui visione si immerge nel finale di Lord Jim di Conrad. Ce lo descrive Pietro Citati in quella raccolta di saggi sotto il nome di La malattia dell’infinito: «Agli scrittori e agli uomini, caduti nelle profondità del sogno-mare, Conrad promette appunto questo: “qualcosa di caduco e senza timore di distruzione”».

E la leggerezza è legata a questa memoria, al ricordo che è dolce per sé ed è per questo poetico, come afferma Leopardi, un passato che riaffiora nei ricordi (sono tanti i ricordi del passato), in questo rapporto tra passato e presente, un passato non privo di momenti nostalgici, perduti, irrealizzato, ma per questo pieno di quella lontananza che affascina, un passato che ritorna per mettersi a confronto con il momento che si sta vivendo. Vorrei dire che il tempo, il suo srotolarsi tra il prima e il dopo, come in un vecchio film, è la traccia, il filo conduttore che unisce i vari racconti, così diversi per contenuto e così identici nella loro sostanza, da cui il futuro emerge come speranza nella sua bellezza e luce: “C’è sempre un sogno da raggiungere. C’è sempre la speranza di un piacere da trovare nel giorno che verrà” (Da allora ti scrivo).

Allora questo abbeverarsi al sogno, alla sorgente di luce, alla speranza, ai veri valori, questa accusa alla realtà troppo appariscente e vuota, questo richiamo alla “bellezza”, la vera bellezza di cui parla Todorov – e non è casuale che il saggio di Todorov prenda lo spunto dall’ascolto della musica e passi poi all’analisi della poesia – sono gli elementi che portano altrove, in una perenne ricerca, dove la poesia è l’approdo ultimo. Poesia dunque. Tutto trova un senso, amori che sfuggono e finiscono, memorie che ritornano con il loro insegnamento, a volte sofferto, a volte incompreso, nella leggerezza che sfuma e che attrae, come avvolto in un velo di nebbia, come la figura di donna che appena compare “mescolata tra la nebbia e la debole luce di un lampione” in Una sera di novembre. Ma ci doveva essere la “nottola di Minerva”, la hegeliana nottola di Minerva che compare solo sul far della notte per dire, attraverso la figura di Giorgio, di questo amore impossibile, che “la poesia riesce a penetrare le nebbie del futuro”. Ci voleva questa sofferta e dolce perdita per arrivare a Lei: “Cercami ovunque, io sarò lì, sempre, ad aspettarti. Poesia, amante mia”. Ci voleva questa riflessione su se stessi in una grigia giornata di pioggia, questo ripiegamento sul proprio essere per scivolare oltre e per arrivare senza preamboli e senza veli, tutto d’un tratto, a significare: “È per questo che in questo preciso momento afferro la penna e lei, quasi da sola, scrive la mia poesia” (La mia barca). Il capitolo che segue, Fermo immagine, ne è la conseguenza: epigrammatica ricerca in che cosa consista la poesia e il fare poesia; poesia, come ricerca, come luce che si accende “per focalizzare e fermare l’emozione”, e poesia come silenzio.

E poi il termine ultimo, la ricerca e il senso di questo viaggio, lo svelamento della bellezza e del significato del vivere inteso come apprezzamento e riscoperta delle piccole cose, come sfida e conquista leale, come apprendimento continuo nel dialogo con il vecchio pescatore per arrivare a capire il vero significato della vita in questo paesaggio dove predomina il bianco – il bianco è il colore del silenzio, come scrive Pierluigi Cappello – dove la voce del mare ha mille altri significati e spinge ciascuno a tentare nuove vie in una ricerca continua che è conquista e conoscenza (Una voce dal mare). Non è casuale che la chiusura del libro lo ponga in maniera categorica, come messaggio per gli altri e per chi sa ascoltare: 

“Non ho escluso i ricordi, ma estraggo dalla memoria solo quelli che voglio e li accarezzo col pensiero, perché tutto lascia traccia. E so usare la gomma da cancellare per quelli che non voglio, mentre mi impegno e cercare un varco per la felicità. 
Non ho detto trovare. Ho detto cercare. E tanto basta per avere speranza” (Una vita ritrovata).

Bruno Bartoletti