Armando Curcio Editore

Intervista ad Antonio L. Falbo per Libroguerriero

 

ATTIVITÀ: scrittore/videomaker freelance

 

SEGNI PARTICOLARI: spesso incapace di adottare dei filtri.

 

LO TROVATE: virtualmente su Facebook (dove gestisco anche l’omonima pagina del romanzo in questione), oppure qui sul mio sito: www.antoniolfalbo.it; fisicamente è più complesso: Ora sono a Torino. Ma mi muovo spesso e volentieri, anche all’estero.

 

Cosa rispondevi da piccolo quando ti chiedevano che lavoro avresti voluto fare da grande?

Il progettista di trattori agricoli, possibilmente cingolati! La mia prima aspirazione lavorativa fu quella. Mio nonno materno era agricoltore e il vedere e poter stare su quelle macchine all’opera, fin dalla prima infanzia, condizionò profondamente il mio immaginario.

 

E adesso, cosa dici?

Che una volta esaurita la spinta creativa della scrittura, forse potrei dedicarmi serenamente a riattivare parte di quelle coltivazioni e terreni ormai incolti.

 

È uscito per Armando Curcio Editore “Finché brucia la neve”. Ti chiedo un sottotitolo al libro.

Il giardino reciso”. Così su due piedi direi questo, o comunque qualcosa del genere. Non sono un grande amante dei sottotitoli e di solito il titolo con cui inizio uno scritto è quello che poi lo accompagna fino alla fine. A volte è questo stesso a ispirarmi la storia o in qualche modo ad aiutarmi a delinearne il profilo.

 

Ci spieghi cos’è il “burn-out”, perno attorno al quale ruota il romanzo?

Il “Burn-out” (letteralmente: essere bruciati, esauriti, scoppiati) è un concetto che è stato introdotto per indicare una serie di fenomeni di logoramento psichico e fisico, registrati nei lavoratori inseriti in attività professionali a carattere sociale. Queste figure sono caricate da una duplice fonte di stress: il loro personale e quello della persona aiutata. Il soggetto colpito da burn-out manifesta sintomi aspecifici (irrequietezza, senso di stanchezza, apatia, nervosismo, insonnia), sintomi somatici (tachicardia, cefalee, nausea, ecc.), sintomi psicologici (depressione, senso di colpa, risentimento, indifferenza, paranoia, difficoltà nelle relazioni con gli utenti, atteggiamento colpevolizzante nei loro confronti). I disagi si avvertono dapprima nel campo professionale, all’utenza viene offerto un servizio inadeguato ed un trattamento meno umano, ma poi vengono con facilità trasportati sul piano personale. Tale situazione di disagio molto spesso induce il soggetto ad abuso di alcool o di sostanze psicoattive, ed il rischio di suicidio è molto elevato.

 

Tu l’hai mai provato?

Vi ero entrato dentro con entrambi i piedi, ecco. Diciamo, però, che l’aver precedentemente scoperto sul campo dell’esistenza di tale sindrome, cosa essa fosse, mi ha poi aiutato a capire, più o meno in tempi rapidi, quale nome attribuire al malessere con cui (seppur in forma più lieve di quello stigmatizzato nella narrazione del romanzo) io stesso iniziai faticosamente a convivere. E così a cercare di porvi un rimedio.

 

Altro tema affrontato è quello della schizofrenia e delle sue potenzialità…

Qui la questione si fa spinosa: o si rischia di cadere in facili luoghi comuni e idealizzazioni romantiche o necessiterebbe di proseguire un dibattito da sempre inesauribile. In più, non avendo i requisiti di studi specifici, preferico risponderti così, con questa citazione: “La Pazzia, lungi dall’essere una anomalia, è la normale condizione umana. Non esserne consapevole, se essa non è grande, significa essere pazzi. Esserne consapevole, se essa è piccola, significa essere disillusi. Esserne consapevoli, se essa è grande… significa essere geni. (Fernando Pessoa, La divina irrealtà delle cose)

 

Il romanzo è ambientato in una comunità psichiatrica dove molto labile è, per dirlo alla maniera della quarta di copertina, “il limite che porta ad essere chi svolge un servizio per fornire un aiuto in chi a sua volta ne necessita con urgenza.” Ma questo limite non è forse in agguato tutti i giorni, in ogni dove?

Sì, certo. Anche se in misura e con risvolti differenti. In questo caso specifico ad essere chiamati in causa sono aspetti della nostra interiorità che talvolta si reggono su basi già di per sé molto fragili. L’etica e la morale personali, gli introietti derivanti dalla nostra educazione (che spesso sottovalutiamo), se messi su un banco di prova concreto, ossia in relazione ai propri reali limiti emotivi, possono generare una sorta di tilt. Riconosciamo noi stessi, e nel tempo strutturiamo la percezione del nostro IO, su slanci umani (come quello del voler aiutare il prossimo) molto idealizzati e che spesso, quindi, poi si infrangono contro una realtà che ci vede incapaci di sopportare a lungo termine l’usura emotiva. Al contempo, però, sono proprio questi slanci che ci spingono a persistere, in virtù del fatto che non si tratta di una resa qualunque. La resa in questione viene percepita prima di tutto come una disgregazione intima, in cui molte delle certezze che si hanno su se stessi andrebbero sgretolate in modo insanabile. “Aiutare qualcuno”, viene visto e percepito più come un aspetto legato all’altruismo o alla sensibilità umana (cosa anche vera), più raramente, invece, è un concetto che si associa “all’esserne capaci”, quindi in grado di filtrare e reggere tutto il bagaglio emotivo, fatto di frustrazioni e spinte avverse, che questo implica.

 

Il tema dell’ “accudimento” dell’altro è presente anche in “Bonding” (Pendragon) perché il protagonista, Henry, si occupa della madre inferma e fa il dog sitter. Il tema del “prendersi cura di” è lambito dalla tua attività di educatore e consulente artistico in ambito sociale?

Lo è stato per circa 4 anni, tempo in cui ho operato nel settore. Ma a dire il vero è stato per circostanze puramente casuali che, letteralmente all’improvviso, mi trovai ad intraprendere quella via. Il mio perorso di formazione, umana e professionale, è di matrice artistica. Ho frequentato il Liceo Artistico e in seguito mi sono specializzato in regia cinematografica presso L’Accademia di Belle Arti di Torino. Solo dopo aver terminato il mio percorso di studi, giunto il momento fatidico di lanciarmi sul mercato del lavoro, mi è stata fatta la proposta da parte di una mia amica di provare a lavorare in un centro come quello descritto nel romanzo. Da lì è iniziato tutto, un po’ per scherzo, un po’ per curiosità e sfida.

 

Una cosa che non ti piace del mondo editoriale/artistico.

Sulle varie magagne e meccanismi di mercato etc. se ne dicono già troppe, secondo me. Citando in riferimento una frase di Giovanni Lindo Ferretti, potrei dire: “… Questo non è il migliore dei mondi possibili. Ma è vero…”. Una nota più personale, invece, riguarda il rammarico che spesso provo nel lavorare e confrontarmi con persone che, forse, non mi capiterà mai di conoscere di persona, ma con le quali si condivide parte di un percorso sempre emozionante ed arricchente come quello della lavorazione di un libro. Mi riferisco ad editors, redattori, responsabili d’uffici stampa… Amo molto potermi confrontare e lavorare con gli altri tramite un’interazione diretta, fisica. Secondo me, certe sfumature ed idee possono avvalorarsi anche solo grazie al poterne discutere in un “qui ed ora”, faccia a faccia, con agio, e magari davanti a una bottiglia di vino. (Un po’ anche come in questo caso della nostra intervista!)… Quando ciò è fattibile, quindi non perdo l’occasione. Ma è abbastanza raro.

 

Una cosa che invece ti piace (sempre del mondo edit).

La possibilità di poter entrare comunque in contatto con persone e realtà stimolanti; la grinta e la voglia di esserci, oltre che di autori, di centinaia di addetti ai lavori (spesso anche molto giovani) che cercano di assolvere al meglio ai propri compiti dal “dietro le quinte”.

 

Due pregi e due difetti.

Credo molto determinato, empatico; sicuramente inquieto, spesso troppo ansioso… E, se se ne può aggiungere un terzo, proprio ora, mi suggeriscono: tal volta insistente fino allo sfinimento (altrui).

 

L’ultimo dubbio.

Malgrado sia molto incline a farlo, non voglio addentrarmi troppo nell’ambito esistenziale. Mi attengo a qualcosa di più spiccio nel risponderti: “riuscirò a portare a termine la stesura del mio nuovo romanzo (il terzo) in tempi ragionevoli, e soprattutto restando fedele allo slancio emotivo e concettuale che l’ha ispirato?”.

 

Una certezza.

(In riferimento alla precedente domanda) … So che ci metterò anima e sangue, e poi vada come deve andare.

 

Raccontaci quella volta che hai insistito.

Oddio, mi sembra di aver adottato l’insistenza come una prassi quotidiana! Lo sono soprattutto con me stesso per spronarmi a portare a compimento i miei propositi, da quelli più “alti” a quelli più terra a terra. Non di rado avverto un forte conflitto interiore e, per non rimanere fermo e impantanarmi ancora di più, allora mi impongo di agire, e dunque insistere, sul versante che nell’immediato sento più urgente per darmi una scossa e riprendermi.

 

Raccontaci quella volta che sei scappato.

Nell’estate del 2009, giunto al punto di rottura, abbandonai il lavoro nel primo centro in cui prestai servizio come eductore. Stavo attraversando una profonda crisi, una delle tante. Decisi di tagliare la corda, staccare con tutto (soprattutto con me stesso, per quanto possibile sia farlo, intesi) e raggiungere una mia amica che viveva su di un’isola greca. Feci un biglietto di sola andata. Dopo qualche mese, però, feci ritorno e mi rimisi in ballo. Tra l’altro, poco prima era uscito il mio primo romanzo, Bonding.

 

E quella che ti sei arrabbiato.

Oh, beh, questo mi capita un giorno sì e uno no, o spesso con ritmi anche serrati durante una sola giornata. E per futili motivi, aggiungo. Comunque, dovendo citare un ultimo caso emblematico, riporto uno scatto d’ira furiosa (accompagnata da imprecazioni e anatemi) avuto un paio di sere fa, a seguito della visione di un servizio giornalistico. Non tollero l’ipocrisia strumentale fatta da sedicenti professionisti dell’infomazione che si fregiano di un’indiscutibile integrità etica e umana, secondo me, pari solo alla loro capacità nel saper mentire a stessi, prima ancora che agli altri. La mancanza del coraggio di guardarsi in faccia e di dignità mi manda fuori di testa.

 

A cosa stai lavorando, ora?

Come dicevo prima, alla stesura di un nuovo romanzo che sto vivendo con particolare intensità, in quanto vede stravolti molti degli aspetti che fino ad ora hanno caratterizzato il mio approccio alla scrittura ed anche lo stile. Poi, ad un progetto per me del tutto nuovo: lo script e la sceneggiatura di una graphic novel ideata e realizzata insieme al disegnatore Alessandro Caligaris. Dopo anni di amiciza maturati durante il periodo dell’Accademia, finalmente siamo riusciti a far “quagliare” tempi ed intenti e metterci insieme al lavoro su questo progetto editoriale che dovrebbe vedere la luce intorno al prossimo autunno. Si tratta di una sorta di spin-off del precedente volume pubblicato da Caligaris con notevole successo nel 2013, Hoarders. Una gran bella sfida. Sceneggiare per una graphic novel in qualche modo mi ha richiamato allo sceneggiare per il video (il mio primo approccio alla scrittura, possiamo dire)… Ci saranno delle belle sorprese, insomma!

 

Salutaci da “Bonding”.

“… L’acquario è rotto, i pesci allo sbando… ”

 

Adesso salutaci da “Finché brucia la neve”.

“… Tutti vorrebbero essere salvati. Chiunque vorrebbe qualcuno in grado di farlo o l’avvento di un miracolo per mettere fine ai propri mali. Ma la verità è che la sola salvezza possibile non consiste mai in ciò che noi speravamo…”

 

 

di Marilù Oliva