Armando Curcio Editore

«Finché brucia la neve», i volti del disagio psichiatrico. Il Fatto Quotidiano

                                                 

 

 

“Quando si lavora nell’ambito della disabilità si pretende, talvolta, l’impegno in una sorta di missione umanitaria, come se il disagio dei ragazzi debba essere compensativo di ogni diritto o bisogno estraneo alla loro assistenza. Non ci si rende conto che si sta svolgendo un lavoro, anche l’educatore è un essere umano con la sua vita privata e che, a fine mese, dovrà fare i conti, come tutti, con le bolletta da pagare. Questo non significa non voler bene alle persone delle quali ci si occupa o non amare la propria professione, ma capire che di lavoro si sta comunque parlando, tale rimane e di quello si campa, non c’è niente di male, nonostante lo stretto contatto con la sofferenza altrui.”

 

Questo mi diceva, all’incirca dodici anni fa, un educatore, con esperienza alle spalle, in una struttura per ragazzi disabili presso la quale mi trovai a lavorare per un periodo limitato di tempo. Allora avevo da poco cominciato ad avere le mie prime esperienze nel campo della disabilità e, come tanti psicologi già formati o in formazione, feci e continuai a fare delle esperienze significative anche come educatore. Può piacere o non piacere che psicologiformati facciano, anche o solo, gli educatori, ma è una realtà purtroppo consolidata, poco utile “la guerra tra poveri” che ne può nascere, è il sistema che non rende giustizia a nessuna delle due categorie che si occupano della dimensione della cura con le loro specificità. Sono consapevole di toccare una tematica delicata e, sebbene, non sia argomento del mio post, non vorrei dare ad intendere di non conoscere la situazione o di pensare che vada bene così.

 

Quelle parole mi rimasero impresse ed ebbi presto modo di verificare quanto fossero sagge sulla mia pelle. Non ci si rende conto che chi si impegna professionalmente nella dimensione della cura non è esso stesso esente, solo perché si occupa di “erogarla”, dal bisogno di riceverla.

 

Nelle pagine di Finché brucia la neve, romanzo dello scrittore e artista videomaker Antonio L. Falbo, l’autore è decisamente capace nel descrivere la vita di una comunità residenziale di utenti psichiatrici principalmente attraverso le vicissitudini interiori dei due principali protagonisti, Alex ragazzo schizofrenico e Desy, una delle sue educatrici. Quel che ho apprezzato di questo romanzo non è stata tanto la trama, quanto l’attenzione nel rendere viva l’interiorità dei personaggi che ho ritrovato in sintonia con tanti miei vissuti e con parecchio di quello che ho appreso in anni di contatto con il disagio psicologico. “Normalizzare” quel che non si considera “normale” attraverso il racconto e la parola è una dote, una dote che il romanzo possiede.

 

L’utente psichiatrico si rivela allora per quel che è veramente, non un matto, ma un essere umano con una sensibilità esacerbata dal suo disagio e la cui disfunzionalità è comunque funzionale a un qualcosa dentro di lui che cerca di proteggere. Se l’integrità è perduta, non necessariamente lo sono le parti che quel tutto costituivano, solo che non comunicano più. “Di fatto, non esiste pazzia senza giustificazione e ogni gesto che dalla gente comune e sobria viene considerato pazzo coinvolge il mistero di una inaudita sofferenza che non è stata colta dagli uomini” scriveva Alda Merini, niente di più vero.

 

L’educatore si rivela per quel che è veramente, non un salvatore o un benefattore, semplicemente, anche lui, un essere umano che si prende cura del disagio degli altri, senza che questo debba significare negare il proprio che, sebbene non arrivi a certe forme estreme, semplicemente esiste e va curato, cominciando dal prenderne atto. Senza questo riconoscimento si ha il burn-out, il professionista vive nell’insoddisfazione, bruciando le sue competenze, questo si ripercuoterà anche sugli utenti.

 

Il romanzo di Falbo ha il merito indiscutibile di parlare di un mondo, quello degli educatori, che è ancora in gran parte sullo sfondo quando si parla di assistenza, troppo spesso ci si occupa del disagio conclamato non dando spazio al disagio sottaciuto, come se non avesse legittimità.

 

Mi piace chiudere con le parole di un’altra grande poetessa, Emily Dickinson:

 

Molta pazzia è divino buon senso-
per un occhio avvertito-
molto buon senso-pura pazzia-
è la maggioranza
in questo, come in tutto, a prevalere-
Di’ si- e sei sano-
ribellati-subito sei pericoloso-
e ti trattano con catene.

 

 

Mario De Maglie

 

psicologo e psicoterapeuta

 

Il Fatto Quotidiano